La premier e la cavalcata televisiva al veleno: “Saviano? L’unica censurata qui sono io” (2024)

ROMA. Sono io la censurata, dice di se stessa Giorgia Meloni. Non gli scrittori e gli intellettuali trattati da avversari come Roberto Saviano o Antonio Scurati, non i conduttori e i giornalisti che in massa hanno lasciato la Rai della nuova stagione meloniana. «Quella non è censura», quella «è pubblicità». Mentre è lei, la presidente del Consiglio – che attraverso una legge voluta da Matteo Renzi e le successive modifiche introdotte durante l’era Mario Draghi, controlla la televisione pubblica – è lei a essere censurata, ostracizzata, lasciata ai margini del racconto politico. Un martirio senza fine – sembra, ascoltandola – che non è terminato nemmeno da quando a Palazzo Chigi ha a(vallato o ordinato nomine di suoi cari o amici o fedeli sostenitori.

Mediaset, Rete 4, l’azienda dove lavora l’ex compagno Andrea Giambruno, stesso canale. Meloni è ospite di Nicola Porro. Poltrona comoda, domande perfette per risposte perfette. La premier sa dove andare e chi evitare in questa cavalcata televisiva prima del voto dell’8-9 giugno. C’è il caso Saviano che ancora brucia sulle pagine dei giornali e ha rilanciato ancora una volta l’immagine di un Paese che è in preda a una selezione governativa dei buoni e dei cattivi. Colpa anche del commissario Mauro Mazza – ex giornalista del Secolo d’Italia, storica testata dei missini e ora in mano a Fratelli d’Italia.

È stato lui a rivendicare pubblicamente l’esclusione di Saviano dalla Buchmesse di Francoforte, generando le accuse di censura. È una parte sostanziale della vicenda che Meloni ricostruisce solo parzialmente in tv: «Saviano non era stato invitato (alla Fiera del libro, ndr) perché gli editori non lo avevano proposto, quindi non capisco dove sia la censura da parte del governo». Neanche un accenno alle parole di Mazza. Ma il caso Saviano serve a Meloni per un acrobatico paragone e un ulteriore azzardo: «Noi abbiamo conosciuto un mondo di amichettismo. Dove tutti gli autori che non erano di una determinata parte politica venivano sistematicamente esclusi dai premi, dalle kermesse». Non dice quali, ma prosegue: «Io ci vedo però un’altra cosa ancora, se posso essere chiara: ci vedo soprattutto pubblicità».

Meloni è chirurgica: «Sapeva che Saviano aveva scritto un altro libro? E anche Scurati. A un certo punto ho visto una foto di Piero Pelù con una maglietta polemica contro di me e ho pensato “e ora che c’entra?” Beh, c’è il nuovo disco. Quando uno deve presentare qualcosa mette in moto tutto il can can della censura per fare pubblicità. Non la chiamiamo rivoluzione, si chiama guadagnare di più». Perché allora, però, artisti, cantanti e scrittori non lo hanno fatto in passato? Perché a ogni uscita di libro e disco quando c’erano altri presidenti del Consiglio non hanno urlato contro il clima di censura? Meloni non si pone queste domande. Perché il suo obiettivo è capovolgere a suo favore le accuse. Far passare se stessa come vittima di un sistema controllato «dalla sinistra». Parlando di amichettismo dimentica – tanto per fare due esempi – Alessandro Giuli e Pietrangelo Buttafuoco, amici da sempre piazzati al Maxxi di Roma e alla Biennale di Venezia. O Pino Insegno, il conduttore spesso suo ospite a Palazzo Chigi, che sta per tornare in Rai nonostante il flop del suo programma.

Per 13 minuti Meloni si dedica quasi esclusivamente a evocare le macchinazioni contro di lei. Per esempio ricorda il suo libro “Io sono Giorgia”, uscito prima delle elezioni che l’hanno incoronata nel 2022, e che l’aiutò non poco nella sua ascesa: «La mia casa editrice chiese di presentarlo al Salone del libro di Torino e risposero di no, perché loro non facevano le presentazioni dei libri dei leader politici. Va bene, io non ho detto niente, il libro ha venduto lo stesso tantissimo».

Le chiama «forze della conservazione e dello status quo». Altro sua formula di culto: «Si organizzeranno per fare del loro meglio, per non farci cambiare questa nazione». Nessun nome, solo riferimenti generici, come sempre: «Le lobby, certa parte della burocrazia italiana, certa parte della burocrazia europea, grandi concentrazioni economiche, poiché la politica era debole, avevano maggiore gioco a fare i loro interessi». L’Europa ha aperto una procedura di infrazione sull’assegno unico perché i requisiti per l’accesso sono stati considerati discriminatori verso i migranti. La sua lettura è diversa: «Se lo devo dare anche agli extracomunitari che secondo loro hanno figli in patria, io non lo reggo» è la risposta di Meloni. «Se alla fine avessero ragione, dovremo rinunciare all’assegno unico». L’auspicio della premier è che la nuova Commissione europea «possa essere un po’più pragmatica». È la sfida internazionale della leader dei Conservatori, mentre in casa Meloni è pronta ad affrontare la sconfitta al referendum sul premierato. «Non mi dimetterò – ribadisce – Una delle regole che mi sono data nella vita è fare il contrario di quello che ha fatto Matteo Renzi», che lasciò Palazzo Chigi dopo aver perso la consultazione popolare sulla riforma costituzionale.

Infine, non poteva mancare una battuta su Vincenzo De Luca. «Sono quella stronza della Meloni» è stata la sua piccola vendetta, consumata in faccia al governatore campano che l’attendeva per i saluti istituzionali a Caivano, e organizzata con piglio da influencer, con tanto di telecamere dello staff al seguito. «Ci ho pensato mentre ero in macchina e mi hanno detto che c’era anche lui».

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